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Andrea Molesini – Intervista

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Quali ragioni l’hanno spinta a spostare la Sua produzione letteraria dalla traduzione di opere di poeti americani e dalla letteratura per ragazzi ad un genere così impegnativo quale il romanzo a sfondo storico?

Quando scrivevo per bambini il bambino dentro di me era potente, non appena ha cominciato a indebolirsi mi sono dedicato ad altro. Ho scritto fiabe dal 1989 al 1999, dieci anni. Poi, per cinque anni, ho tradotto poesia. E dal 2005 mi sono dedicato a Non tutti i bastardi sono di Vienna. Perché? Perché quella particolare folla di personaggi, quella situazione, quell’atmosfera, hanno cominciato a tormentarmi e a non darmi tregua, era un bolo di cui dovevo liberarmi, che premeva dentro di me per essere detto.

Quale lavoro intellettuale ha dovuto compiere per adattare il Suo stile narrativo al peculiare contesto del romanzo storico?

Nessuno. Perché lo stile dei libri per ragazzi l’avevo dimenticato, non mi apparteneva più. E poi ogni opera d’arte deve reinventare la propria tecnica, la sola capace a portarla a compimento, a farla funzionare, a generare emozione insomma.

Quanto ha inciso l’affetto per la Sua terra natale nella scelta di ambientare il romanzo nelle zone limitrofe al Piave? Come mai la scelta di utilizzare così frequentemente l’uso del dialetto veneto?

Niente. L’affetto non c’entra. La storia è nata là perché quello è stato il teatro dell’occupazione austrotedesca. Il dialetto? Non mi sembra che sia usato così tanto, su 363 pagine, se si mettono vicine tutte le righe in dialetto veneziano, non arrivi a farne una, di pagina. Compare quasi solo sulla bocca di Teresa, personaggio forte, cruciale, che apre e chiude il libro, ma pur sempre un comprimario.

Al di là del “Diario dell’invasione” di Maria Spada, da Lei citato nella nota al testo, vi sono altre fonti storiche che, pur incidentalmente, hanno inciso nell’elaborazione della vicenda narrata?

Moltissime. Lettere, diari, bollettini di guerra, mappe e dispacci militari, reperti archeologici, e una bibliografia di circa 200 libri, per lo più saggi e manuali sulla Grande Guerra.

Tra tutti i protagonisti del romanzo mi ha particolarmente colpito il personaggio di nonno Guglielmo, da Lei descritto in maniera così precisa, accurata ed affettivamente intensa da immaginare l’influenza decisiva di una persona da Lei effettivamente conosciuta: si è ispirato ad una figura reale nel delineare la fisionomia ed il carattere di questo personaggio?

No, l’immaginazione sa essere più vera del reale.

Quanto incide il Suo personale rapporto con Dio e con la religione nel rifiuto di nonno Guglielmo, Renato e Paolo di confessarsi davanti a Don Lorenzo? Più in generale, quanto incide questa Sua visione nella scelta di relegare il conforto della Fede entro un ambito evidentemente secondario rispetto al coraggio ed alla dignità umana?

Non ne ho idea, quello che so è che lascio decidere ai miei personaggi il loro destino, cioè lo faccio scaturire dal loro carattere, dalla loro personalità, che si manifesta pagina dopo pagina in una miriade di dettagli. Hanno scelto di non confessarsi perché la loro esperienza, la loro identità suggeriva questo, e non altro, ma, ripeto, è una scelta tutta loro, non mia.

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un’intervista di Marco LaTerra.

 

 

 


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